Il vuoto è parente del silenzio. Il suo corpo, la sua faccia, la sua geografia. Quando entriamo in una stanza notiamo tutto quello che contiene, quasi mai vediamo il suo vuoto, eppure, è sempre più del pieno. Il vuoto rivela le tante qualità della luce. Nel vuoto si esercita la vista periferica, che non afferra, ma nota la sfuocatezza del mondo, il tentennamento dei contorni, la mobilità costante e velocissima della materia. Nel vuoto si vedono respirare i muri, e tutto si forma e si distrugge in un battito di ciglia. Fissare il vuoto senza famelicità abitua la mente alla sconfinatezza. Il cuore la conosce già. Chiudi gli occhi e sei nel vuoto, ti perdi contemplando un cielo di stelle, o tenendo gli occhi bassi sull’infinito micro cosmo di un sentiero, o di un’aiuola di città, ed è lo stesso vuoto che articola alfabeti dimenticati che pure conosci da sempre. Eppure, anche il vuoto è stato per me al principio un’esperienza nociva. Lo sguardo vuoto di chi avrebbe dovuto amarmi, il vuoto di parole quando quello che senti non ha nomi e ammutolisci. Il vuoto di risposte davanti a interrogazioni vitali. Ma la frequentazione del vuoto, la disponibilità ad assaporarlo, porta a conoscere una dimensione grande, spaziosa, aperta, priva di opinioni e narrazioni, dove diventa possibile sentire cose insopportabili.
E’ difficile conoscere il vuoto se siamo stipati di convinzioni, opinioni posizioni, idee, di fissità. Il vuoto ha bisogno di spaziosità, di larghezza di vedute, di orizzonti ampi e spostabili. Quando ci disarmiamo, e riusciamo a sostare nel transito da un epoca a un’altra, da una solitudine a un’altra, da un amore a un congedo, da una fine a un nuovo inizio. Quando stiamo senza promesse e consolazioni, in attesa e in ascolto, il vuoto sorride e annuisce. Il vuoto è un “c’è”, una presenza dell’assenza che crea un risucchio nel petto, e quel: “dunque tu esisti”, che di solito attribuiamo all’innamoramento, al riconoscersi. Anche il vuoto ci riconosce se lo lasciamo essere ed entrare, ed è forse il più originario dei riconoscimenti. La faccia che avevamo prima di nascere. Il vuoto è molto vicino al senso dell’umorismo perché hai meno appigli per prenderti sul serio, e così viene più spesso a visitarti il riso, l’ebbrezza del non aver niente da difendere. Il vuoto è anche un grande custode di domande. Apprezza che tu gliele affidi, e poi le contempli, ben distese, tra le sue immisurabili braccia. Il vuoto è anche scomodo perché rivela spesso cose che non volevi sapere, che disconoscevi per mantenere in piedi relazioni, o situazioni, che non ti corrispondono più, ma temi il rischio della perdita, del vuoto, appunto. Poi un giorno, o una bella notte, scopri che il vuoto che tu anche essere amico, fai fagotto, e senza sbattere la porta te ne vai lontano. Grazie al vuoto si va anche lontano da se stessi, per come ci si era ingessati in una figura da non dover aggiornare troppo spesso. Il vuoto ti tocca piano su una spalla, di solito la sinistra, e ti porta via con sé, verso l’avventura che non ha nome, né superbia, solo un viaggio intorno alla stanza, poi torni a dormire ma i sogni sono tutti cambiati: c’è molto più spazio. Il vuoto, è vuoto di sé, ha quella faccia cosmica che hanno i neonati, che senza darsi mai arie di sapienti, o di asceti, fissano a lungo il vuoto, e ricambiano il suo sorriso.
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